- Con sentenza n. 19151/2018 la Corte di Cassazione ha sancito che l’ONERE DELLA PROVA incombe sui genitori che agiscono per il risarcimento del danno, in particolare occorre fornire la prova che la madre, qualora fosse stata tempestivamente e correttamente informata delle gravi anomalie del feto, avrebbe scelto di interrompere la gravidanza. Grava invece sul sanitario incriminato l’onere di prova contraria: dimostrare che la madre non avrebbe interrotto la gravidanza se avesse conosciuto le problematiche del nascituro. La madre può fornire la prova anche tramite presunzioni: dimostrando le proprie precarie condizioni psico-fisiche, allegando prove che aveva richiesto consulto medico per conoscere lo stato di salute del nascituro, dimostrando le pregresse manifestazioni di pensiero della gestante riguardo l’aborto.
- Precedentemente, con sentenza n. 7269/2013, la Corte di Cassazione aveva affermato che “la stessa richiesta di accertamento diagnostico e anche di più accertamenti diagnostici, ove non espressamente funzionalizzati alla verifica di eventuali anomalie del feto, è, al postutto, un indice niente affatto univoco della volontà di avvalersi della facoltà di sopprimerlo, ove anomalie dovessero emergere, innumerevoli essendo le ragioni che possono spingere la donna ad esigerli, e il medico a prescriverli, a partire dalla elementare volontà di gestire al meglio la gravidanza, pilotandola verso un parto che, per le condizioni, i tempi e il tipo, sia il più consono alla nascita di quel figlio, quand’anche malformato“.
- Con la sentenza n. 4540/2016, gli Ermellini hanno affermato che, in alcuni casi, le strutture sanitarie e i medici che devono eseguire i controlli ecografici sul feto ai fini della relativa diagnosi morfologica devono obbligatoriamente informare la paziente di potersi rivolgere a centri specializzati. Se tale onere non sia rispettato, sia la struttura sanitaria che il sanitario rischiano di essere chiamati a rispondere per aver fatto insorgere nella paziente un incolpevole affidamento sulla sicura bontà dell’esame.
- Con la sentenza n. 243/2017, la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla vicenda di un ginecologo che non aveva sottoposto una gestante ad amniocentesi, nonostante le richieste della donna. Ai fini della responsabilità del sanitario non rileva la circostanza che, due mesi dopo, la donna aveva rifiutato di sottoporsi ad amniocentesi, posto che tale circostanza “non elide l’efficacia causale dell’inadempimento quanto alla perdita della chance di conoscere lo stato della gravidanza fin dal momento in cui si è verificato“.