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Nascita indesiderata, risarcimento danno anche al padre

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Con ordinanza n. 2675 del 5/02/2018 la Corte di Cassazione – sez. III Civ. ha ribadito che il diritto al risarcimento del danno da nascita indesiderata spetta non soltanto alla madre ma anche al padre, con ciò confermando orientamento ormai consolidato della Corte, in base al quale il padre è “tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta può qualificarsi come inadempimento, con tutte le relative conseguenze sul piano risarcitorio”.

(Cfr. Cass. n. 20320/2005)

IL CASO:

Una donna si sottoponeva ad interruzione volontaria della gravidanza che però non veniva correttamente eseguita, pertanto la gravidanza proseguiva e nasceva una bambina.

Il padre citava in giudizio la struttura sanitaria chiedendo il risarcimento dei danni subiti in quanto la gravidanza, andata avanti contrariamente alla volontà di entrambi i genitori, aveva comportato notevoli difficoltà economiche.

La domanda veniva rigettata sia in primo grado che in appello, l’attore pertanto ricorreva per Cassazione.

LA DECISIONE:

La Corte affermato che, in tema di responsabilità del medico per aver determinato la nascita indesiderata della bambina, il risarcimento dei danni, quali conseguenza immediata e diretta di tale dell’inadempimento, spetta non solo alla madre ma anche al padre, ribaltando totalmente la sentenza di merito.

La Cassazione ha argomentato rilevando che occorre tenere conto dei diritti e doveri che si fondano sulla procreazione cosciente e responsabile, degli effetti negativi della condotta del sanitario, nonché della responsabilità dell’ospedale in cui egli opera e senza dubbio il padre rientra tra i soggetti tutelati dal contratto con la struttura ospedaliera, ciò comporta che la prestazione inesatta può qualificarsi come inadempimento, con ogni conseguenza sul piano risarcitorio anche nei confronti del padre!

Ebbene, considerato che entrambi i genitori hanno patito il danno, per effetto dell’inadempimento colpevole del medico, il padre ha il pieno diritto al risarcimento dei danni, compresi quelli patrimoniali, al pari della madre,

L’ORDINANZA

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Ordinanza 5 febbraio 2018, n. 2675

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – rel. Consigliere –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

 

ORDINANZA

sul ricorso 2167/2014 proposto da:

B.G., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE A MORDINI 14, presso lo studio dell’avvocato ANTONINO V.E. SPINOSO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MASSIMO GRATTAROLA giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

AZIENDA OSPEDALIERA NAZIONALE (OMISSIS), in persona del Direttore Generale pro tempore Dott. G.N., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIUSEPPE FERRARI 35, presso lo studio dell’avvocato MARCO VINCENTI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato PIER FRANCO GIGLIOTTI giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1291/2013 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 12/06/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 05/12/2017 dal Consigliere Dott. ANTONELLA DI FLORIO.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Ritenuto che:

– B.G. evocò in giudizio dinanzi al Tribunale di Alessandria la locale Azienda Ospedaliera Nazionale “(OMISSIS)” (da ora A.O.N.) al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti, in qualità di coniuge di F.A., per l’erronea esecuzione dell’intervento di raschiamento uterino cui era stata sottoposta (effettuato in ragione della errata diagnosi di aborto interno) a seguito del quale la gravidanza era proseguita (visto che solo dopo la ventunesima settimana, e quindi oltre il termine previsto dalla L. n. 194 del 1978, era stata accertata in altro Ospedale la cattiva esecuzione dell’aborto e la permanenza in vita del feto) e si era conclusa con la nascita indesiderata di una bambina.

Deduceva che la gestazione era andata avanti contrariamente alla palesata volontà sua e della moglie, in considerazione della loro età avanzata e della presenza di un altro figlio; che, a seguito dell’evento, la moglie aveva dovuto rinunciare alla propria attività lavorativa per accudire la neonata; che egli stesso aveva dato le dimissioni dal proprio posto di lavoro per ottenere il TFR maturato, necessario per provvedere ai mutati bisogni della famiglia; che aveva dovuto sostenere le spese per il sostentamento della minore e che era stato poi costretto a trasferire la propria residenza in altra città, dove aveva dovuto faticosamente ricercare una diversa attività lavorativa – tutti fatti che gli avevano causato gravi danni di cui chiedeva il ristoro.

Il Tribunale di Alessandria, con sentenza n. 586/2012 depositata l’8.1.2012, respinta l’eccezione di prescrizione sollevata dall’AON, qualificava come responsabilità di natura contrattuale la fattispecie dedotta ma, pur avendo riconosciuto la cattiva esecuzione dell’intervento, rigettava la domanda del B. affermando che non era stato dimostrato nè che egli avesse effettivamente osteggiato la gravidanza nè che anche la madre della bambina avesse espresso la sicura intenzione di abortire.

La Corte d’Appello di Torino, adita per la riforma, ha rigettato l’appello, respingendo le rinnovate richieste istruttorie e confermando la motivazione resa dal primo giudice.

Avverso la predetta sentenza è stato proposto l’odierno ricorso affidato a due motivi, supportati da memoria ex art. 380 bis c.p.c., comma 1.

La parte intimata si è difesa con controricorso.

Considerato in diritto che:

– Con il primo motivo, richiamando l’art. 360 c.p.c., n. 5, il ricorrente deduce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione fra le parti: assume, al riguardo, che erroneamente non era stato dato ingresso alla rinnovata richiesta di ammissione delle prove testimoniali dedotte e volte a dimostrare l’intenzione sua e della moglie di interrompere la gravidanza, ove fossero stati tempestivamente messi al corrente che l’intervento di raschiamento non era riuscito; assumeva che, se dette prove fossero state ammesse, l’esito della controversia sarebbe stato diverso. Censurava altresì, in relazione a tale omissione, l’argomentazione (svolta nelle pagg. 2 e 3 della sentenza impugnata e definita “assurda”) secondo cui “la riprova del fatto che la stessa ( F.) non avesse intenzione di fare ricorso ad una interruzione volontaria di gravidanza è riscontrabile proprio nel fatto che la figlia è poi nata” e riconduceva detta affermazione ad una motivazione apparente.

– Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 167 c.p.c.; lamenta, inoltre, l’assenza di motivazione su un fatto decisivo della controversia in ordine al quale vi è stata discussione fra le parti: si duole, sotto il primo profilo, del fatto che la Corte torinese aveva omesso di considerare che l’AON aveva incentrato la sua difesa principalmente sull’eccezione di prescrizione (poi rigettata) omettendo del tutto di prendere posizione sulle allegazioni da lui specificamente prospettate in ordine alla volontà di interrompere la gravidanza; censura, rispetto al secondo profilo, il fatto che la Corte non aveva affatto valutato, in motivazione, la circostanza che la stessa AON aveva fornito la prova documentale della transazione che era seguita al giudizio intentato dalla moglie per il medesimo fatto, conclusosi con il pagamento in suo favore di Euro 125.000,00 a titolo di risarcimento del danno, non assegnando alcun ragionevole significato a tale evento e alla mancata contestazione della convenuta in ordine alle allegazioni concernenti la manifestazione dell’intenzione di abortire.

I motivi devono essere esaminati congiuntamente in quanto le censure in essi contenute sono strettamente connesse e riguardano, nel complesso, la sostanziale “apparenza” della motivazione che il ricorrente assume essere stata resa attraverso un percorso logico che non ha dato realmente conto dei motivi del rigetto della domanda: ha dedotto, al riguardo, che non erano state affatto esaminatele rinnovate richieste istruttorie (riportate nel ricorso) mancando del tutto argomentazioni logicamente comprensibili e giuridicamente idonee a sostenere la reiezione delle relative istanze; ha aggiunto, infine, che non erano state osservate le norme preposte a regolare la ripartizione degli oneri probatori fra le parti senza alcuna plausibile motivazione.

Sintetizzati come sopra i motivi del ricorso, una corretta qualificazione di essi rispetto alle censure prospettate (cfr. al riguardo Cass. 1370/2013; Cass. 24553/2013 e Cass. 23381/2017 secondo cui “Ai fini dell’ammissibilità del ricorso per cassazione, non costituisce condizione necessaria la corretta menzione dell’ipotesi appropriata, tra quelle in cui è consentito adire il giudice di legittimità, purchè si faccia valere un vizio della decisione astrattamente idoneo a inficiare la pronuncia; ne consegue che è ammissibile il ricorso per cassazione che lamenti la violazione di una norma processuale, ancorchè la censura sia prospettata sotto il profilo della violazione di norma sostanziale ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, anzichè sotto il profilo dell'”error in procedendo”, di cui all’art. 360 cit., n. 4″) consente alla Corte di ricondurre entrambi nell’alveo dell’art. 360, n. 4, concernente le ipotesi di nullità della sentenza, fra le quali devono essere ricomprese quelle riferibili ad una motivazione inesistente, resa, cioè, attraverso una mera apparenza argomentativa.

In tal modo riqualificati, i motivi sono manifestamente fondati.

Deve, al riguardo, richiamarsi preliminarmente l’ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte che ha affermato, con riferimento all’ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, che “ricorre il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza allorquando il giudice di merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento” (Cass. 9105/2017); e che “in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia.

Nel caso in esame, in cui le articolate richieste istruttorie del B. (riportate nel ricorso in esame alle pagg. 9, 10, 11 e 12) sono state respinte senza alcuna plausibile motivazione: l’affermazione che “appellante avrebbe dovuto provare non soltanto lo stravolgimento della propria vita in termini economici, ma, in presenza dei presupposti di cui alla L. n. 194 del 1978, che la moglie avrebbe optato per l’interruzione della gravidanza e, soprattutto, che quel nascituro era anche da lui non voluto (v. pag 2 sentenza impugnata)” risulta radicalmente inidonea a soddisfare tanto il principio costituzionale sancito dall’art. 111 Cost., comma 6, quanto la regola di cui all’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4.

Ma, soprattutto, totalmente priva di significato rispetto al caso concreto (in cui, nonostante l’esito sfavorevole del giudizio, è stato comunque accertato con statuizione ormai definitiva l’errore dei sanitari nella diagnosi e nell’esecuzione dell’intervento) risulta essere l’apodittica affermazione, espressamente censurata dal ricorrente, che “la riprova del fatto che la stessa non avesse intenzione di fare ricorso ad una interruzione volontaria di gravidanza è riscontrabile proprio nel fatto che la figlia è poi nata” (v. pag. 3 sentenza impugnata): trattasi di argomentazione priva di senso logico anche rispetto alle premesse, ed in quanto tale “inesistente” come motivazione, con conseguente nullità della sentenza, dovendosi anche tenere conto della circostanza, emersa nel giudizio e documentata dalla stessa parte convenuta, consistente nella transazione alla quale sono pacificamente addivenute la compagnia di assicurazione dell’AON e la moglie del B. per il medesimo fatto oggetto di separato giudizio.

La sentenza impugnata deve, pertanto, essere cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Torino, in diversa composizione, che dovrà riesaminare la controversia attenendosi ai seguenti principi di diritto:

“ricorre il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza – che, in quanto tale, configura l’ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4 – allorquando il giudice di merito indichi gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento senza una benchè minima, approfondita loro disamina logica e giuridica, ovvero quando li illustri attraverso espressioni tautologiche che rendono impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento, anche in relazione al corretto assolvimento degli oneri probatori rispetto ai quali la reiezione delle istanze istruttorie deve essere fondata su argomentazioni sintetiche ma esaustive”.

“In tema di responsabilità del medico per erronea diagnosi concernente il feto e conseguente nascita indesiderata, il risarcimento dei danni che costituiscono conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento della struttura sanitaria all’obbligazione di natura contrattuale spetta non solo alla madre ma anche al padre, atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l’ordinamento, si incentrano sulla procreazione cosciente e responsabile, considerando che, agli effetti negativi della condotta del medico ed alla responsabilità della struttura in cui egli opera, non può ritenersi estraneo il padre, il quale deve, perciò, considerarsi tra i soggetti “protetti” e, quindi, tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta è qualificabile come inadempimento, con il correlato diritto al risarcimento dei conseguenti danni, immediati e diretti, fra i quali deve ricomprendersi il pregiudizio di carattere patrimoniale derivante dai doveri di mantenimento dei genitori nei confronti dei figli”.

La Corte d’Appello investita del riesame della controversia provvederà anche a liquidare le spese del giudizio di legittimità.

Si dispone l’oscuramento dei dati personali contenuti nella sentenza.

P.Q.M.

La Corte, accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Torino, in diversa composizione, per un nuovo esame della controversia ed anche per la liquidazione delle spese relative al giudizio di legittimità.

Si dispone l’oscuramento dei dati personali.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della terza sezione civile, il 5 dicembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 5 febbraio 2018

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